L'uomo é erba
di Stefano De Matteis
Tre Terzi, di Antonio Biasiucci, ed. Peliti Associati, Roma 2012
Cercherò di dire qualcosa sulla fotografia di Antonio Biasiucci in occasione della sua nuova mostra, Tre/terzi, un allestimento diviso in tre “stanze”: «Sacrificio – Tumulto – Costellazioni». Si tratta di un nuovo ed essenziale capitolo di una ricerca che è cominciata anni fa e che Antonio porta avanti con la perizia di un cesellatore, la manualità di un grande artigiano e il respiro lungimirante di un artista che riesce a guardare nello stesso momento al presente e alla storia per approssimarsi sempre più a quello che è il focus di tutto il suo lavoro: la condizione dell’uomo. E per farlo, Antonio si ostina a lavorare attorno ad alcuni temi che ha individuato come basilari, centrali e portanti: la nascita e la morte, l’inizio e la fine, il caos, l’uomo come parte di un qualcosa di più complesso alla pari di tutte le altre creature… un progetto ambizioso, ma anche poetico, religioso. Il progetto di un artista.
In particolare utilizzerò quest’occasione anche per interrogarmi sulla forza del suo percorso fotografico e sul suo potenziale antropologico, cominciando con lo smaltire un luogo comune: spesso quando ci si riferisce al rapporto tra fotografia e antropologia si pensa a una fotografia che è descrittiva e documentaria, nel senso più banale del termine. Ai più esperti sul versante antropologico, viene subito in mente la foto “simbolica” di Bronislaw Malinowski alle Trobriand, seduto davanti alla sua tenda, che l’osservatore immagina nuova di zecca (anche se non lo era), con indosso candidi abiti bianchi e intorno le case di paglia con gli indigeni seminudi. Con un minimo di sense of humour lo si potrebbe descrivere “travestito” da antropologo, come sono travestiti da esploratori i viaggiatori delle barzellette.
Cercherò di spiegare che le foto di Antonio Biasiucci, pur avendo un fortissimo potere antropologico, non reggono sulla descrizione o sulla documentazione nel senso più usurato e abusato del termine cui si diceva. Hanno molto di più e tanto di diverso dalla immediata narratività, perché si esprimono sul piano della necessità, dell’essenzialità, della rappresentazione, dell’arte e dell’estetica. Senza per questo rinunciare al loro potere antropologico perché riguardano l’uomo nella sua essenza e nel suo rapporto con la vita.
Per farlo, chiederò al lettore di seguirmi in un viaggio lungo (ma di poche pagine, stia tranquillo), che attraversa l’intera opera di Biasiucci muovendo da una prima parte, come se fosse una grande premessa o un prologo, da cui raggiungere le grandi trasformazioni della maturità.
Prologo in terra di Caserta
Si accennava dell’uomo e del suo rapporto con la vita. E allora bisogna considerare la capacità umana di declinare, secondo forme prestabilite ma sempre diverse, il rapporto con la natura e con gli altri. Perché è questo che Antonio ferma, fin dall’inizio, fin da quando ha cominciato a fotografare: da quando, a Dragoni, in provincia di Caserta, figlio del fotografo del paese impegnato tanto in fototessere quanto in matrimoni, cominciò a riprendere paesaggi e contadini.
Proprio perché forse gli ruotavano attorno interi repertori fotografici che mostravano i momenti più rappresentativi per l’individuo, i rituali che ne scadenzano l’esistenza, ma che ci mostrano la vita “apparecchiata a festa”, secondo le abitudini locali e le pratiche della comunità, Antonio dirige la sua attenzione a ciò che “rimane”, a qualcosa di sostanziale o a ciò che non si può “travestire”, a ciò che apparentemente non è mostrato, ma sta lì ad aspettare qualcuno che lo scorga.
Dove non è mai sera non è un repertorio di usi e costumi contadini, ma una serie di piani sequenza, di campi lunghi, su un gruppo di contadini in cui ci si sofferma essenzialmente sulle pause e sulle attese. Lo sguardo viene guidato nei silenzi che circondano figure se non irriconoscibili certamente non identificabili. A guardare con attenzione queste foto, se ci si lascia andare nel panorama, si corre il rischio di sentire il vento che soffia, il silenzio, l’aria che sopraggiunge dalla distanza delle montagne… Vedi degli uomini che, come i loro animali, i cani, si guardano intorno, ciascuno tagliando una prospettiva, ognuno seguendo una direzione. E questo è il silenzio dell’attesa di una sera che non arriverà mai, perché mai ci si ferma, perché di rado si torna a casa, perché il posto di questi uomini come di questi animali è nella natura e tra la natura. Attimi fotografici costruiti con una perfezione estetica che allora lasciò sbalorditi visto che si trattava di un ventenne al suo primo lavoro.
Una volta ho mostrato queste foto nascondendo le didascalie e chiedendo dove potessero essere state scattate e a quale luogo potessero appartenere: sono venuti fuori i riferimenti più strani, dalle Ande alla Bolivia… sono foto fortemente de-localizzate, ma altrettanto radicate: chi non capirebbe infatti che sono contadini o guardiani di bestiame, che ammirano il paesaggio come un abituale specchiarsi nelle riproduzioni di quadri e santini o negli specchi che si hanno in casa, alla parete, appesi alla quotidianità delle loro esistenze? E in queste foto Biasiucci riesce a dirci che quello che vediamo e che lui ci mostra non è un paesaggio, né il “loro” paesaggio, ma rappresenta il panorama umano di cui fanno parte.
E, da subito, appare chiaro che la scelta di Dragoni come terreno di ricerca, laboratorio di prove e di esperienze è solo una traccia. Perché in realtà, come ogni artista Biasiucci ha messo al centro la propria vita, la propria autobiografia e cerca di aprirsi un varco nella coscienza, muovendo dalle sue emozioni, analizzando la propria esperienza in modo da realizzare un’espressione profonda e consapevole di Sé. Trasformandola in poetica se non in poesia.
E per meglio chiarire questo punto, nulla di più utile che ricorrere al suo secondo lavoro, Vapori, il quale centra e sovverte una questione che in senso lato è ancora più antropologica della precedente e che riguarda il maiale: dove riferirsi al maiale significa fare i conti con la fame e la sussistenza, aprirsi un passaggio nella memoria per raggiungere quel mondo contadino con cui fino a qualche generazione fa avevamo un po’ tutti molto a che vedere, direttamente o indirettamente; e, come se non bastasse, significa tirare in ballo riti e pratiche sociali. Esattamente come avverrà poi fatto con il pane di cui diremo più avanti.
Credo che l’Italia sia l’unico paese dove il rito del maiale nel mondo contadino non è stato studiato in maniera definitiva. Non mi risulta che esistano lavori come quelli di Roy Rappaport e Francesco Pellizzi o quelli di Remo Guidieri sull’uso che se ne fa nel “cammino dei morti”.
Si tratta di riti e di pratiche che, come si diceva, siamo in molti ad aver avuto a che fare, almeno tra quelli di una certa età: fino agli anni Cinquanta e Sessanta, prima delle grandi trasformazioni degli anni Settanta, pur abitando in città i legami con la campagna e con la terra erano strettissimi.
Nel mio caso, era abituale essere invitati con la mia famiglia dai parenti di mia madre che risiedevano nell’area del Nolano nel mese di febbraio per partecipare all’uccisione del maiale. Noi si accorreva per il piacere di rispondere all’invito, per il ritrovarsi con i parenti, ma anche con la speranza che nella spartizione qualcosa arrivasse nella nostra dispensa. Senza considerare che quel giorno era una festa che, come tutte, andava santificata principalmente con il cibo che veniva consumato mentre si “lavorava”: e questo rappresentava un altro modo e una diversa occasione più personale e “soggettiva” di fare provviste.
E lì, quel giorno, tutti dovevamo partecipare al lavoro: per esempio, una volta atterrato il maiale, noi ragazzi dovevamo tenerlo fermo standogli seduti addosso.
Io guardavo stupito la vecchia zia che durante l’anno avevo sempre incontrato in compagnia del “suo” maiale che la seguiva, e che lei chiamava per nome e trattava con l’affetto che oggi si darebbe a un cane o un qualsiasi altro animale domestico, la quale non mostrava la minima esitazione a dare il via perché venisse sgozzato.
Certamente per me, la prima volta, fu uno shock sentire le sue urla disperate… mi presero in giro, qualcuno dicendo che era il suo modo di pregare, un altro che dava la voce per farsi aprire le porte del paradiso, un altro ancora che erano le sue laudi all’offerta… Ma era una festa, perché la sua morte era la garanzia di vita, di poter mangiare, di avere cibo per un anno e tutti, vicini e parenti, erano invitati a partecipare, in un rituale di scambio reciproco.
E a mangiare si cominciava da subito, perché essendo un lavoro molto “faticato” soprattutto per gli uomini, questi andavano “sostenuti” con cibo e vino e l’abituale pratica del dissanguamento si trasformava in produzione di frittelle di sangue fatte al momento e distribuite come prima colazione.
Una generazione dopo, anche Biasiucci si trovò a soffrire perché obbligato a tenere un piede o la coda del porco mentre questi si dimenava, e anche per lui dovette essere scioccante. Ma eccolo, tempo dopo, ritornare sull’argomento: negli anni della riflessione, nel momento in cui la sua autoconsapevolezza artistica andava maturando attraverso la fotografia affrontò nuovamente uno dei più strazianti e forse indigeribili momenti dell’infanzia, quasi fosse una seduta d’analisi su di un trauma infantile.
E cosa ci mostra con Vapori? Non ammazzamenti né sangue né carne. Né feste, né partecipazioni collettive. Ma cieli, mani, semmai un coltello, una zampa e i vapori, appunto. La prospettiva del fotografo diventa quella dell’animale atterrato e bloccato. L’occhio della camera si trasforma in una presa diretta degli occhi della bestia morente, moribonda o morta, che racconta e ci fa vedere ciò che lui vede o ciò che riesce a intravvedere.
E qui il rito si trasforma in un sacrificio, in cui la bestia scompare, perché si dà e offre tutto di se stessa all’uomo, quasi fosse un dono per la nostra sopravvivenza.
Sempre più la camera, la macchina, lo sguardo fotografico si fonderà in un tutt’uno con l’occhio del fotografo che indaga per conoscere: entrambi sono il mezzo tramite cui si compie l’esperienza e matura la coscienza. La scoperta del mondo cerca di superare il buio della conoscenza individuale per diventare collettiva e questo avviene tramite un processo che è solo e principalmente fotografico.
Infatti, eccoci all’ultimo step di questo prologo: il trasferimento da Dragoni a Napoli che non poteva non coincidere con la conoscenza e la presa d’atto della città che avviene attraverso la fotografia, ma Stazioni significa anche tante altre cose assieme.
Innanzitutto rappresenta il processo di separazione dal paese: infatti ci sono le strade di Dragoni, la via che ne segna l’allontanamento; in una foto c’è, piccolo in fondo, il padre e in primo piano la casa dove esercitava il suo lavoro di fotografo. Da qui inizia un percorso che lo porta a scoprire la nuova città, Napoli, con i suoi attraversamenti, i suoi luoghi noti e ignoti, le periferie, i suoi finti savi e veri “pazzi”, a costruire un agglomerato che per la prima volta è solare e dove entra come sfondo il Vesuvio. Ma è anche un lavoro “segnato” da facce estreme, da condizioni brutali, di uomini e di animali, come i cani che giocano e si mordono.
E saranno le ricerche di questo periodo, gli approfondimenti tra il luogo d’origine e l’allontanamento, tra il chiuso delle relazioni sociali e lavorative di Dragoni e il conflitto con la città – una vasta rete di prove e di esperimenti realizzati su elementi apparentemente diversi, tanto da apparire spuri – che gli permetteranno di compiere il primo grande salto, la prima essenziale prova di maturità espressiva ed estetica, di linguaggio e di contenuto, mettendo assieme e nello stesso momento superando tutti questi fili e questi tracciati che esploderanno in Corpus.
Capitolo primo: le strutture elementari dell’esistenza
Il corpo umano non è solo carne e sangue, materia e memoria, riflesso e riflessione, ma è anche storia e forse, soprattutto, geografia. Le increspature del corpo della nonna anziana disegnano geografie impensabili, strutturano sulla pelle giochi e volute che il tempo ha scritto; somigliano a quelle righe di lava del Vesuvio, alle pieghe della terra segnate con gli anni dalla pioggia che, poco alla volta, ha ridisegnato il magma oramai rinsecchito. La natura si struttura in segni, in disegni, in geroglifici che si somigliano nel corpo come nella terra.
E poi gli occhi, quelli degli uomini nelle penombre dei suk, ma anche quelli degli indiani, come quelli delle vacche o delle capre, sono tutti occhi, ugualmente occhi che permettono di guardare il mondo, di vederlo, di riconoscerlo e farsi riconoscere.
E poi c’è il pane – su cui obbligatoriamente torneremo – di Marrakech o l’impasto del pane fatto in casa a Dragoni. Solo che le forme del pane appena impastato e diviso in pagnotte ricoperte di farina messe lì a lievitare si confondono con i teschi del camposanto delle Fontanelle lasciati sulla terra e ricoperti dalla povere del tempo… e i pesci dell’Acquario Dohrn, le forme di animali imbalsamati del museo zoologico…
Un universo reale che le riprese rendono immaginario e l’accostamento fantastico, un mondo materiale e ridisegnato dagli scatti, dalle angolazioni, dal taglio e dalla luce, il tutto a cercare le trame della vita nell’intero universo, le forme della partecipazione e della comunanza, o meglio dell’unica comunità di viventi.
Corpus è straordinario anche per questo, perché ci guida nel labirinto della vita, mostrandoci quanto le increspature della terra vesuviana siano i parenti più prossimi delle rughe di un corpo anziano e quanto un pane abbia in comune con un teschio secolare. Non si indaga qui il mistero della vita, ma si svela la trama dell’universo che dovrebbe farci sentire parte di un unico mondo, accomunandoci a quelle cose che hanno una vita diversa dalla nostra.
Intermezzo: L’uomo è erba
Ora, a mano a mano che la ricerca fotografica poetica ed estetica di Biasiucci va avanti si viene a maturare un progetto che “in nuce” era già degli inizi: l’uomo, come essere umano, partecipa alla natura come tutte le altre “cose” del creato e gli altri esseri, umani e no.
E le riflessioni fotografiche di Biasiucci di questo periodo – ripensate naturalmente in sequenza cronologica in rapporto a quanto sarebbe maturato da lì a poco – mi hanno sempre fatto venire in mente quello straordinario sillogismo di Gregory Bateson che invertiva “ecologicamente” il pensiero classico: «L’uomo è mortale, l’erba è mortale: l’uomo è erba».
Tramite la macchina fotografica, Antonio riscopre la natura, una natura non solo umana, dove tutto funziona esiste e si muove a pari grado, senza alcuna supremazia dell’uomo nel creato. Nella quale dove l’uomo potrebbe addirittura non esserci più o non esserci ancora. E dove ogni scatto è un “incipit vita nova” che inaugura e ringrazia l’esistenza stessa di esistere e di essere nel mondo assieme a tutte le altre cose. Da qui il suo pensiero, poetico e religioso, che si sta animando. E che sta sostenendo con una forma e un’estetica sempre più matura, non più relativa al singolo scatto, una proposta che diventa progetto, costruzione, mondo poetico ed estetico.
Capitolo secondo: ogni cosa è illuminata
Le prospettive del lavoro vengono così a delinearsi, segnando una nuova direzione di ricerca e di espressione estetica.
E, a mano a mano, prende forma da Corpus un progetto che si consolida ancora di più con Magma e con Res, che di Corpus rappresentano naturale e ideale proseguimento.
E qui, nello spazio tra questi lavori chi scompare, il grande assente di questo nuovo capitolo è proprio l’uomo: non c’è ancora o c’è già stato, oppure appare sotto forma di reperto, di scavo archeologico, di sopravvivenza. Per concentrarsi esclusivamente sul mutamento e su quelle cose che non hanno come noi umani un inizio e una fine. Per ora, almeno dalle grandi mostre, l’uomo è escluso e l’attenzione è rivolta al tessuto dell’universo.
La grana del terreno e il magma del Vesuvio che paiono agitarsi in onde furiose, il tessuto del mare che a distanza disegna increspature che sembrano immobili, il ribollire della Solfatara in figure materiche e fantastiche, ma anche resti di archeologia industriale, scorie, ferri e tubi, oggetti che la luce e il taglio rendono fantastici, mostruosi o irriconoscibili, extraterrestri… fumi che sgorgano dalla terra e vapori che escono da cavi di collegamento… e poi, in Res, i volti, volti umani, riprese dei calchi del museo, espressioni immobili, fermate dal tempo: questa volta l’uomo è solo sopravvivenza o reperto, in cera o in terracotta, ma si tratta comunque di espressioni immobilizzate, bocche spalancate, occhi fissi o incavi oculari vuoti come se fossero sgranati, immagini di stupore, di meraviglia per aver visto troppo o per non aver visto a sufficienza… qui è passato l’angelo della storia di Klee di cui Benjamin ci ha raccontato gli effetti: ha visto le distruzioni, le devastazioni e le tragedie del progresso; ecco cosa resta dell’uomo nella storia, la sua vera relatività, la sua parzialità e inconsistenza nei confronti dell’universo e del disastro che è stato compiuto.
Anche i paesaggi lasciano sgomenti perché costruiscono figure inaspettate aprendo spericolate discese da montagne con varchi e dirupi grazie a smottamenti o innalzandoci verso l’alto, inseguendo cime vertiginose che disegnano linee scure proiettate verso il celo. Ma sicuramente, volendo entrare nel cantiere delle elaborazioni, nel vivo della riflessione contenutistica ed estetica, Biasiucci mentre lavorava a Magma doveva star già immaginando un altro tema che costruisce in parallelo ed entrambi si completano a vicenda: anche nel lavoro successivo ci troviamo infatti a confronto con panorami e paesaggi, con montagne e vallate, dirupi e vertiginose ascese, solo che questo lavoro è il frutto di giorni passati rinchiuso in una stalla di pochi metri a Dragoni per fotografare vacche, con le rare eccezioni per qualche ripresa in India.
E di nuovo abbiamo la confluenza di immagini che avvicinate e affiancate organizzano un mondo che viene ordinato per differenze nella similitudine.
Vacche non è un lavoro (solo) ecologico, ambientalista e animalista: è un altro capitolo di quest’ambizioso tentativo di trovare un senso nella vita e nelle cose a cominciare dalla natura e dalla sua molteplicità e varietà. Scoprire quanti panorami si possono rintracciare nel movimento di un dorso o nella geometria delle vertebre. Non è un gioco di società né si tratta di mettersi alla prova con le tavole di Rorshach, ma ci dà, a noi spettatori, la considerazione della parzialità e della relatività rispetto alla grandezza dell’universo.
Infatti, come si diceva, in questo gruppo di cataloghi, mostre, fotografie, installazioni, l’uomo forse c’era o magari in un futuro ci sarà di nuovo, ma tutto vive senza di lui, anzi con ancora maggiore integrazione tra i panorami disegnati con la sella di una vacca e quelli del Vesuvio.
Elogio della vita vissuta
È vero che c’è l’inizio e la fine, il caos e la follia del progresso che fa sgranare gli occhi all’angelo della storia come a quel calco addormentato, che sembra riposare nella “quiete dopo la tempesta”. Però va anche detto che, in tutto questo, se non c’è l’uomo in carne ed ossa, c’è la vita, la vita vissuta, la vita piena, la vita consumata. E questa è anche la vita compiuta. Infatti qui si inserisce uno dei capitoli fondamentali che compone una delle tappe essenziali del grande libro della vita che Biasucci sta costruendo con la sua ricerca fotografica e che riguarda proprio la vita realizzata.
E alla rappresentazione di questa vita realizzata, Biasiucci arriva per vie traverse, che sono concettuali, “popolari” e, ça va sans dire, fotografiche. E ce la mostra da una prospettiva come al solito disincantata, estraniata, oggettiva.
Cos’è che compie la vita di un individuo del popolo? Cosa dimostra che ha raggiunto il suo scopo di esistere? Certo, il silenzio. E quanto di lui resta. Solo che qui, proprio nel silenzio, tra le rovine e i resti, si mescolano tutti, sia le vite riuscite che quelle incompiute. Come dimostrano i teschi delle anime del purgatorio che Biasiucci ha fotografato in più di una occasione e in più di un luogo. E il riferimento letterario alla “tragedia” della storia che Antonio incarna fa pensare a quella Storia che solo Elsa Morante ci ha raccontato.
Ma continuando a scavare in questi silenzi, in queste pause, nei volti anonimi e nelle biografie di sconosciuti che sono il fondamento dell’esistenza e fabbricano il muro del divenire, ecco che c’è l’illuminazione.
Nella tradizione popolare che cosa documenta la vita riuscita, la vita soddisfatta, la vita che si compie seguendo le esigenze del soggetto e dell’individuo e non le bizze e le volontà del turbine del progresso o della macina della storia?
Forse c’è solo una testimonianza di queste vite realizzate: gli ex voto. La scritta VFGR che si appone a tante riproduzioni in argento, come a tanti disegni o semplici oggetti, significa esattamente questo: Voto Fatto Grazia Ricevuta. E in cosa consistono queste richieste e quali grazie si richiedono? Si tratta essenzialmente di richieste di vita. Non si chiede, quasi mai, di vincere una lotteria o di possedere l’irraggiungibile. Si chiede che si compia il miracolo del possibile: un matrimonio, dei figli e, soprattutto, l’essere scampati dal pericolo di una malattia.
Ed ecco come Antonio elogia la vita e l’esistenza, riprendendo, fermando, fino a “santificare” il trionfo della vita compiuta, della vita realizzata: mani occhi braccia polmoni intestino… ma anche neonati in fasce, bambini e bambine, donne e uomini, vecchi e giovani. Il catalogo dell’essenziale che garantisce l’esistenza, la sopravvivenza e dà modo alla vita di continuare. Per grazia ricevuta. Ex voto.
Della natura (comune) delle cose
Ecco che a mano a mano vengono a delinearsi le tematiche principali del lavoro di Biasiucci: la nascita e la morte, la vita che c’è in mezzo e, in questa, quei momenti che la rendono essenziale. Sono le linee di un progetto semplice ed elementare e per questo maestoso. Perché significa trovare le trame nel caos, la direzione nell’oscurità, per cercare di afferrare – e fermare grazie alla fotografia – la natura comune sotto gli aspetti mutevoli delle cose.
Ed è straordinario che in questo non ci sia nostalgia, né del passato né delle famigerate origini, ma solo scatti partecipati e nello stesso tempo freddi per documentare l’attualità dell’esistenza.
Ed ecco che comincia a prendere forma il senso dell’antropologia in cui potrebbe essere rubricata la fotografia di Biasiucci: metafore e simboli che ricostruiscono esteticamente la condizione essenziale dell’uomo, che sottostanno alle sue forme mutevoli e la cui sostanza sotto quelle forme trova un’immutabilità.
È proprio seguendo questa direzione che ci si comincia a rendere conto del respiro del suo progetto: da Corpus a Magma fino a Res, passando per Vacche, viene costruito un universo fatto per tappe, per elementi indagati e ripresi, approfonditi e riproposti, che ruotano attorno ad alcuni grandi temi, ad alcuni argomenti su cui riflettere (con la macchina fotografica, of course). Bisognerebbe costruire un unico libro dei suoi cataloghi e sfogliarlo tutto di seguito per rendersene conto. E si tratta anche di un lavoro con forte impianto “culturale”, perché ragiona e ci porta a riflettere su quelle che sono le caratteristiche esistenziali proprie della attuale condizione umana, che risente delle inflessioni e dei riflessi della storia.
Pur lavorando su temi che potrebbero dare spazio alla memoria – e al meglio e al peggio cui questo termine ci ha abituati –, non se ne trova traccia nel suo lavoro. Resta un tentativo di analisi fortemente ed essenzialmente “culturale” della nostra condizione, della condizione dell’uomo nel mondo. A partire da simboli essenziali o da resti e residui, o dalle trame della vita e della natura, come abbiamo cercato di dimostrare finora. Per offrire ancora un’ulteriore controprova a quanto stiamo dicendo, rifacciamoci a due esempi, ancora più recenti.
Prese il pane…
Se le vacche racchiudono il paesaggio geografico nel paesaggio del loro corpo e con i loro occhi e i loro sguardi si offrono all’occhio del fotografo, esse sono anche “sorgenti di vita” quasi materne nella produzione dell’alimento primo per l’uomo, che è il latte. Allo stesso modo, il secondo “elemento” da cui parte Biasiucci è un elemento altrettanto essenziale per l’uomo tanto sul piano materiale quanto simbolico: il pane. Mi sembra inutile in questa sede riassumere i valori simbolici e metaforici del pane, nonché i significati religiosi che questo conserva per il mondo cattolico. Pur essendo un alimento per eccellenza, per esistere esso ha bisogno dei quattro elementi fondamentali: la terra, l’aria, l’acqua, il fuoco. Ma torniamo per un attimo di nuovo a casa, a Dragoni.
Nei paesi, un tempo, il pane si faceva il sabato e in dosi sufficienti da durare l’intera settimana, attizzando forni casalinghi o rivolgendosi a quelli pubblici e collettivi.
Per fare il pane, oltre la farina, si usava quella sorta di lievito madre o naturale di produzione non industriale che è il criscito. Ogni famiglia, ogni donna di famiglia, curava il proprio e lo teneva disponibile per l’utilizzo settimanale. Ma quando finiva, nelle dimensioni del piccolo paese il criscito rappresentava l’elemento dello scambio femminile e familiare: era una sorta di seme della reciprocità che grazie a questo elemento sgorgava rigogliosa. Ce lo si scambiava o lo si imprestava per vederselo tornare indietro trasformato in panella o in palatone.
Il pane era già presente nei precedenti lavori di Biasiucci: solo che in Corpus siamo ancora al livello dell’acqua e della farina mescolati, siamo al pane crudo dell’impasto che mani vorticose modellano in forme essenziali. Poi il caso, l’occasione, la tecnica, la cultura fa il resto: e trasferisce dal crudo al cotto, così quell’impasto diventa pane e in questa trasformazione gli viene dato un volto, un’espressione, un’identità. Ed è tutto questo che Antonio cerca, quando riprende le forme del pane, come se in questo elemento fosse celato il mistero dell’universo ed esso racchiudesse al suo interno tutte le forme possibili.
Il pane diventa qui metafora e archetipo, placenta che conserva in sé forme antropomorfe che alludono a esseri viventi umani e animali.
E certamente non è un caso che questa ricerca viene messa in volume assieme a un’altra che potrebbe apparire in conflitto: i calchi del museo di antropologia. Negli anni Trenta vennero realizzati dei calchi per uno studio sulle razze che sono stati ripresi su di un fondale nero.
Si tratta di facce, sono espressioni, più precisamente visioni di uomini e donne come se fossero addormentati. Solo volti, senza corpi, senza mani e senza piedi. Non hanno un nome, non hanno un’identità. Forse sono loro le vittime di quell’angelo della Storia, come potrebbero esserlo i teschi anonimi del camposanto delle Fontanelle che spesso tornano.
Appaiono dal buio, dal nulla, dall’oscurità, come se riemergessero dalle acque (così come sono state esposte al museo Madre di Napoli).
Le facce del pane e i volti senza identità sono i due lati della stessa medaglia. Partecipano alla stessa natura delle cose. Al principio come alla fine.
Sperimentazioni e ricerche
Ciò che personalmente ammiro di più in un artista è scoprire che non si ferma, che non si adagia sui risultati raggiunti, che è disposto a esporsi al rischio, che corre il pericolo di sbagliare ma non smette di cercare e di ricercare. E soprattutto che non si accontenta del successo più o meno grande che l’ha accolto.
Questa sarà certamente una delle lezioni che Biasiucci ha ricavato dalla frequentazione di Antonio Neiwiller, che gli ha forgiato la tempra dello sperimentatore.
A questo si aggiunge la consapevolezza che l’arte richiede fatica, costanza e perseveranza. Realizzare un’opera è difficile, un progetto artistico molto di più. Diceva Eduardo che è facile avere tante idee, ma che è difficile portarne a compimento una come si deve.
E poi, mai pensare che il pubblico non capisce, non ci arriva, non è capace, che quello che proponi è troppo difficile e quindi meglio abbassare il proprio linguaggio a un loro ipotetico livello per essere compresi. Bisogna all’opposto avere un’alta concezione dell’intelligenza del pubblico, sapere che è disposto a seguirti, a venirti dietro purché tu non gli dica bugie, non menta, purché non si cerchi di intortarlo con il denaro falso della finta poesia e con le banalità del bene.
E la cosa che rende ancora più straordinario il lavoro di Biasucci è questa componente di “rischio” che mette in ogni mostra. Un rischio che riguarda non solo la novità che realizza e mette in campo, ma l’azzardo di elaborare ogni volta un percorso nuovo. E di offrirsi al pubblico nella verità del sentimento espressivo in modo che possa coglierlo disponibile, aperto e indifeso.
Come accade ancora una volta, per questa nuova mostra. Di cui indirettamente abbiamo detto e solo su una cosa voglio tornare in conclusione.
Tre/terzi
Se il Sacrificio è quello del corpo che si dà, umano o animale, che si offre per l’altro o per gli altri, ed è quello della donna che si lascia attraversare dal figlio, che dà il suo corpo per portarlo alla luce, che lo crea con la sua carne e il sangue, come è sacrificio quello dell’animale che si offre per la sussistenza dell’umanità, che si consuma nel corpo altrui per permettergli di esistere.
Se Tumulto rappresenta la liminalità, quello che c’è in mezzo, tra la vita e la morte, nell’attimo della creazione o della fine, non il cammino di un’esistenza, ma il momento del passaggio e della trasformazione. E Tumulto raccoglie tutte le opere centrali del lavoro di Biasiucci: dai vulcani ai corpi, dagli animali ai reperti di museo, dall’archeologia industriale…
Costellazioni è forse l’apice di questa mostra, come elaborazione, proposta e sperimentazione.
Lo spettatore è invitato a entrare in una stanza buia. L’incertezza e l’insicurezza lo accompagnano. Lo spaesamento è forte e viene come destabilizzato. L’occhio ha bisogno di ambientarsi, di abituarsi all’oscurità. A mano a mano che si adeguerà, cominceranno ad apparire volti, facce, espressioni: la sensazione è quella del fotografo che in camera oscura vede apparire dal nulla le immagini sulla carta immersa nella vasca di sviluppo. Noi spettatori vediamo apparire dal nulla le immagini del passato, i volti di altre esistenze. Sono sopra, a fianco a noi, dietro di noi. Cominciamo a fluttuare con loro. Le reazioni sono strane: si può essere spaventati o affascinati; oppure entrare in una sorta di territorio metastorico dove ci si trova più vicini e più uniti, parte di un tutt’uno.
Ma prima di immergersi in questo universo c’è un ulteriore passaggio, una cinghia di trasmissione che dal Tumulto della seconda stanza ci guida e ci introduce al buio della notte delle apparizioni. È un tavolo, su cui sono poggiate delle lastre fotografiche. Sono ritratti. Sono una folla. Le lastre hanno il lato smerigliato a vista per lo spettatore e si intravedono i ritocchi e gli interventi: la chirurgia che il fotografo Alfredo Biasiucci operava per togliere le imperfezioni sui volti che ritraeva, che oggi sono un’altra massa anonima.
Un gesto che ci illumina e ci proietta nella dimensione del silenzio e dell’anonimato. Che però riporta in vita tanto l’autore quanto quei volti, ce li offre ridestandoli dall’oblio.
Ecco come Biasiucci riesce a costruire il passaggio dal piano della memoria (personale, locale, collettiva) al piano di una cultura condivisa: da una lastra segnata con l’argentone a uno spazio buio dove ci appaiono i fantasmi di un passato che la nostra mente crea direttamente davanti ai nostri occhi. E per Antonio Biasucci, che da anni ha avviato un processo di totale identificazione con la fotografia, quest’atto di creazione non poteva non avvenire che in una camera oscura.