Nero e luce, materia nostra
di Maria Antonella Fusco
Tre Terzi, di Antonio Biasiucci, ed. Peliti Associati, Roma 2012
Questo progetto, la mostra e il volume che la accompagna, nascono dalla scelta dell’Istituto nazionale per la grafica di valorizzare le collezioni d’arte contemporanea con iniziative che sottolineino il valore del collezionismo pubblico, sia che si tratti di committenza diretta o di operatività dell’artista per l’ING, che di acquisizione. Nel caso di Biasiucci, a motivarci è la presenza in Istituto, dal 2002, dell’intera serie Res, lo stato delle cose, composta da sessantacinque immagini di grande formato. Le nostre collezioni, disegni, stampe, fotografie, sono troppo delicate per reggere ai rischi dell’esposizione permanente alla luce. Così l’avvicendarsi di mostre temporanee, dedicate all’antico come al contemporaneo, svolge la missione di un Museo permanente, ma finisce anche per sottolineare, ampliando al massimo l’orizzonte, la qualità di interi fondi altrimenti ignoti.
All’interno della produzione di Biasiucci, d’altro canto, Res si caratterizza per un intenso apparentamento a tecniche tradizionali di stampa calcografica, come la maniera nera. Trattandosi di stampe fotografiche, è evidentemente l’annerimento progressivo in camera oscura a rendere peculiare il lavoro del fotografo (ancora oggi, caso raro, stampatore dei propri bianco e nero... com’è raro il caso di un fotografo che parli in bianco e nero, dunque in luce ed ombra); l’antica capacità di sottrarre ombre per calibrare luci, se è importante in sede di ripresa, assume poi un valore determinante nelle scelte di stampa. L’analogia con le tecniche di stampa calcografica non finisce qui, naturalmente, perché comune è la derivazione dalle strategie del multiplo, che sia matrice o negativo fotografico poco importa: in entrambi i casi ogni esemplare, soprattutto quando lo stampatore e l’artista coincidono, è un Unico.
Nel caso di Antonio Biasiucci, poi, la critica sottolinea da sempre il rapporto profondo con il nero come luogo del sentimento e della luce da modellare, riportando al visibile, piano piano, solo particolari. Come le emozioni, che particolari sono di un sentimento profondo e uniforme, così i particolari visivi di Biasiucci possono essere definiti emozioni dell’occhio.
La tecnica usata è dunque parallela a quella incisoria, la cosiddetta maniera nera in cui si sommano le superfici scure, fino a donare all’inchiostro la capacità di sovrapporsi, ma anche di “sottoesporsi” fotograficamente.
Dice bene Giuseppe Montesano nella sua introduzione a Res, lo stato delle cose: “No, Biasiucci non è contento dell’apparenza, e lavora alla fotografia come se fosse un’acquaforte, l’acquaforte un’incisione, l’incisione una scultura e la scultura un corpo a corpo con la tenebra che incombe pronta a negare ogni apparizione. Sembrerebbe in certi momenti di essere alla fine del visibile, ma proprio sull’orlo della sparizione di tutto, Biasiucci raggiunge il contrario della negazione: e allora di fronte a noi prende forma un altro genere di presenza, che non è più solo una copia o una traduzione della realtà nello spettro dell’apparenza, ma una vera presenza che esiste ora e per sempre...”(p. 89).
Ora nel nostro statuto fondativo, è ben evidente che tutto ciò che costituisce lavoro e fatica, sul nero e sulla luce, sul togliere gradi chiaroscurali e aggiungere luce, è parte necessaria, imprescindibile, del nostro ormai secolare ‘Osservatorio sull’immagine’. Avvicinarsi e allontanarsi via via dal linguaggio grafico e incisorio, è la nostra specialità e la nostra missione.
Biasiucci ci è dunque speculare e parallelo, corre con noi l’avventura di immagini moltiplicate e di stratificazioni di luce nera, che siano fotografie o incisioni, carboncini, grafiti e biacche. E la graduale costruzione di questa mostra, sezione per sezione, sala per sala, ci ha portato a condividere con l’artista il senso di una scelta all’interno di tutta la propria ormai trentennale esperienza, perché essa gli è tutta presente, e allestire le sue immagini non costituisce quella che si definisce una ‘retrospettiva’, ma è anzi una ri-costruzione costante di senso della propria esperienza artistica. Un’esperienza che vive da sempre di serie, collezioni di immagini, in un senso propriamente narrativo (e anche questo lo apparenta in tanti modi alle nostre ‘cartelle’ di grafica), e che dunque lo presenta sulla ribalta del collezionismo, pubblico o privato che sia, come un collaboratore alla costruzione di senso dell’intera collezione.
A sfogliare la bibliografia su Antonio Biasiucci, colpisce subito come l’esercizio critico si sposi, in tutti gli autori, alle sollecitazioni letterarie, ma soprattutto emozionali. La sua è l’esaltazione della fotografia come arte, del linguaggio fotografico come purissimo ‘mezzo’ espressivo.
Al tempo stesso, a noi spetta il dovere di collocare storicamente la sua opera, in quanto museologi e collezionisti pubblici: è quanto in questo libro compie Maria Francesca Bonetti, responsabile delle Collezioni storiche fotografiche dell’Istituto. Vorrei ad essa aggiungere soltanto una testimonianza sui delicati anni formativi di Biasiucci, sul suo rapporto con Napoli, città adottata subito dopo il terremoto dell’80, quando i puntelli degli edifici superavano di gran lunga il numero dei passanti. Via Depretis, 1982: una grande arteria, uno dei palazzi umbertini del Risanamento, e al tempo stesso postbellici de ‘Le mani sulla città’ è puntellato appunto in facciata; e una libreria appena inaugurata, la Dehoniana, con il suo spazio mostre nel sotterraneo. Si scende con cautela, ancora troppo fresco il ricordo delle fughe per le scosse sismiche.
Ma la vera scossa è sotto: un ragazzo di ventun anni, gentile, timido, riservato, ma al tempo stesso sicuro del suo lavoro, dei suoi sguardi/ immagini che tuttora ho in mente come allora. Già se stesso, non paragonabile alle esperienze che pure annoveravano in città Mimmo Jodice e Marialba Russo, Fabio Donato, Luciano Ferrara, Luciano D’Alessandro, Cesare Accetta e tanti altri, fotografi di grande qualità cui dedicavamo, a Villa Pignatelli, piccoli densi omaggi antesignani.
Napoli nell’82 era dunque ‘città fotografica’ per eccellenza.
Ma era anche, e soprattutto, città teatrale, antica e nuova. Ed è il più tardo incontro con Antonio Neiwiller che rende il ragazzo di Dragoni autenticamente napoletano. Neiwiller era artista di sperimentazione visiva e testuale, Biasiucci già sapeva che il medium fotografico era espressione artistica altrettanto sperimentale. Di questo incontro hanno scritto approfonditamente intellettuali della Napoli di fine Novecento, da Mario Martone a Fabrizia Ramondino. Posso aggiungere il sentimento di chi si trovava molto giovane a dirigere il Museo che oggi è diventato Casa della Fotografia, Villa Pignatelli, ed aveva la sensazione, a pochi passi da ‘Spazio libero’, poi ‘Nuovi teatri uniti’, di condividere un’avventura che poteva traghettare, e per molti di noi traghettò Napoli fuori dagli angosciosi puntelli del terremoto, verso un’originale dimensione artistica.
Tra la prima mostra e l’incontro con Neiwiller, si compie per Biasiucci l’esperienza di Cenere, con la committenza da parte dell’Osservatorio vesuviano, diretto da Giuseppe Luongo, di immagini del Vesuvio che quasi immediatamente cessarono di essere documentarie, per divenire i frammenti emozionali di Biasiucci. Piace ricordare a chi scrive che si compie in quell’Osservatorio vesuviano (e il termine ‘osservatorio’ diviene dunque metaforico oltre che oggettivo) la parabola iniziata nel fatidico 1839, quando toccò proprio al direttore dell’Osservatorio, prof. Macedonio Melloni, di comunicare alla Real Accademia borbonica di Scienze, Lettere ed Arti l’invenzione, anzi la scoperta della fotografia, a pochi mesi di distanza dalla comunicazione di Arago a Parigi.
Ma, come sosteneva il napoletano Giovan Battista Vico, la Storia è fatta da corsi e ricorsi...