Res
di Luca Patocchi
Conosco Antonio da un po’ di anni e ho seguito l’evoluzione di una ricerca portata avanti con caparbietà e coerenza, indipendente, fuori da ogni logica legata a tendenze o mode del momento. Sicuramente nell’ambito della ricerca fotografica Biasiucci ha un ruolo che lo contraddistingue e lo rende unico sia per la particolarità del linguaggio che per la costanza nella realizzazione di un progetto che, col passare degli anni, si fa sempre più evidente e chiaro.
Biasiucci è un fotografo di terra nel senso sia reale che metaforico. Di terra perché, forse, insieme a Giacomelli è uno dei pochi fotografi italiani che non ha origini metropolitane e ha vissuto la propria infanzia in campagna, a stretto contatto col mondo contadino: la sua poetica affonda le radici proprio in queste origini che hanno favorito un approccio diverso alle cose della vita, un diverso modo di “misurare” e rispondente ad altre necessità. È un fotografo di terra anche nel senso più pieno del termine: fotografa soggetti che sono alla base della nostra esistenza (acqua, pane, pietra, terra, vacche) e che, attraverso un continuo processo di scarnificazione (che lui dichiara aver appreso dall’unico suo maestro, il regista teatrale Antonio Neiwiller), riesce a rendere universali, aperti a più interpretazioni e letture. Biasiucci ha pochi riferimenti strettamente fotografici, quelli più chiaramente rintracciabili riguardano un certo tipo di teatro sperimentale degli anni Settanta-Ottanta, e alcune atmosfere tipiche di un certo cinema russo – penso a Tarkovski – e probabilmente molti possono essere i riferimenti all’arte povera italiana.
Il diverso punto di partenza determina, però, uno sguardo reso ancora più particolare da un metodo di lavoro che tende all’essenziale: laborioso e lungo che, come lo stesso Biasiucci afferma, permette un vero confronto col soggetto, scelto mai a caso, o come semplice pretesto, che nel corso del tempo assume altri significati. “I vulcani, col passare del tempo, sono diventati una misura della mia esistenza”: penso che tutti i suoi soggetti rappresentino per lui una misura, siano essi il pane, la vacca, il vulcano o quant’altro ancora Antonio Biasiucci andrà a scegliersi come motivi conduttori.
Altro aspetto fondamentale della sua visione è il continuo cercare la sua luce, che irrompe dal nero “primigenio” e mostra la forma delle cose, e che diventa un comune denominatore delle sue immagini: gli serve a evidenziare e a cancellare, a mostrare ciò che è necessario e a escludere il superfluo.
“Nell’insolito materialismo religioso che è di Biasiucci non vi è occhio divino a plasmare il mondo (il nostro concretissimo e astrattissimo mondo) ma l’occhio che è la luce – e se viene dal magma a separarlo e distinguerlo, o invece cade sul magma, a separarlo e distinguerlo, questo è secondario, va lasciato alle speculazioni dei credenti e dei non credenti. Importa che la luce si definisca come sguardo, che sia sguardo. La luce illumina, forma: “Dalle forme anche le più incerte, confuse, indeterminate, risponde un’altra luce, un altro sguardo”1.
Da questo processo nasce la sua poetica, la sua ricerca fotografica.
Nei lavori giovanili (Dove non è mai sera, Cenere, Vapori, Stazioni) tutto è incentrato sulla memoria, che qui è strettamente personale, come una sorta di ritorno a quelle radici, come lui afferma, a lungo rinnegate. Negli anni a venire passa dalle radici (personali e storiche) alle origini, nel senso più profondo del termine, sia per i soggetti scelti che per il modo di trattarli visivamente.
Qui “origini” vanno intese in senso e letterale e universale: che appartengono a tutti, che superano ogni confine territoriale e culturale. E con questi presupposti, avvolti da un “nero primigenio”, nascono le prime immagini di Corpus.
“Corpus è un viaggio dentro le origini del mondo e delle cose, una vertigine dentro la materia e dentro la storia. I corpi antichi delle vacche, animali dell’uomo, la sostanza del pane, la lava del vulcano e l’acqua del mare, la pelle stessa dell’essere umano o ciò che dell’essere la morte lascia – sono i diversi momenti narrativi dell’esplorazione fotografica di Biasiucci. Le sue fotografie dense e allusive ci parlano della differenza fra gli elementi della realtà e, al tempo stesso, di una misteriosa somiglianza, di una oscura mescolanza. Intensamente concreta, fisica, ma contemporaneamente spirituale, la fotografia di Biasiucci si muove attraverso la luce e il buio, percorre le forme, entra nei gorghi della materia, va in cerca di simboli, indaga il punto confuso nel quale natura e cultura iniziano il loro lungo dialogo e compongono la storia degli uomini”2.
Oggi più che allora, Corpus svela tutta la sua forza di progetto estetico e culturale, una dichiarazione di intenti dove si intravedono tutte le possibili direzioni future: infatti, sono presenti i vulcani e le vacche cui saranno dedicati i successivi due volumi, Magma e Vacche, esasperando sia nei contenuti che nel linguaggio le iniziali linee di ricerca, ma anche quelle presenze inanimate che esplodono ora con Res.
“Se una ricerca termina quando mi si svela il mistero che la contiene, allora il mio lavoro sui vulcani rimane una ricerca non risolta”. Questa dichiarazione di Biasiucci sintetizza tutto il travagliato confronto con il soggetto-vulcano così legato al mistero della creazione che custodisce senza svelarlo.
Magma riassume il tentativo di restituire le emozioni, la fatica e le domande senza risposta che l’argomento gli procura. “Dalla sua familiarità con il mondo dei vulcani Biasiucci ha tratto fotografie che vanno innanzi tutto considerate come un insieme problematico, prima di isolarne le particelle quadrate. Si tratta, infatti, di un esteso paesaggio costruito attraverso la coesistenza di quadrati accostati, simile a un’ampia frase musicale in cui le note, gli stridori, i silenzi e i trilli racchiudono una serie di sensazioni sempre attraversate da un interrogativo”3.
Queste sensazioni e questi interrogativi saranno ancor più evidenti nell’installazione realizzata per presentare il lavoro sui vulcani: un luogo circoscritto da sette schermi quadrati, di quasi tre metri di lato, collocati a ellisse su cui si alternano immagini retroproiettate con una sequenza inesorabilmente lenta ma in continuo e costante movimento. “Il magma è per antonomasia la trasfigurazione della materia, la violenza e l’imprevedibilità della natura. La sua immagine, la sua rappresentazione è necessariamente frammentaria e intangibile. Ogni dettaglio nasconde un antro in un ritmo dinamico e concatenante di pieni e di vuoti, di ombre e abbagli, d’incontenibile energia e trascinante desolazione, la natura prima dell’uomo, la natura senza l’uomo. Lo spettatore può sedere al centro della sala e immergersi nella scansione delle dissolvenze, quasi forse sprofondato, galleggiando nel centro di un cratere, nell’epicentro di un’attività tellurica decelerata dalla rarefazione delle immagini e perciò resa più angosciosa, più riflessiva; un’entrata personale all’inferno. Il vulcano è l’orlo di un’apocalisse, qui rimandata, sublimata ed esorcizzata dal potere catartico dell’arte”4.
Ma come si guarda un vulcano? Come si racconta un vulcano? “Il processo vulcanico è inafferrabile, sfugge proprio quando tutto sembra chiaro”5. Allora l’installazione diventa il luogo del confronto, l’entrare in una zona: “ciò che mi interessa è la metafora che il vulcano esprime: rappresenta la zona primaria, è la zona per eccellenza, dove distinguo il fondamentale dall’effimero: ci si reca nella zona per incontrare l’ignoto e la scoperta di ciò che dentro di sé è più importante”6.
Il terzo tomo – come Biasiucci stesso preferisce definirlo – di questo misterioso percorso sulle origini delle cose e degli uomini è dedicato a un animale protagonista di quel mondo contadino della sua infanzia cui è strattamente legata la storia dell’umanità: “La vacca è un poema di compassione, nutrice di milioni di uomini, bestia pacifica, muta e paziente. La sua protezione significa la protezione di tutte le creature mute, create da Dio, e perciò l’antico profeta le donò l’onore del primo rango”7.
Realizzate esclusivamente all’interno di una stalla, sempre la stessa, come sempre le stesse sono le poche vacche che l’abitano, la ricerca durata quasi dieci anni, si è evoluta nel corso del tempo e si è conclusa con un viaggio in India, a Varanasi: quasi una verifica lì dove la vacca ha una considerazione speciale. “La stalla: a Dragoni, il suo paese. Una stalla si trasforma in teatro della memoria, caverna di Platone, ventre materno. Ne vengono fuori immagini sulle cui nere superfici affiorano, come quando si abituano gli occhi al buio, masse vaghe, tessuti materici, sentieri luminosi, in mezzo ai quali esplode, placido ma vivido, come frammento di un antico racconto mitologico arrivato fino a noi in una lingua dimenticata, un occhio che ci guarda. E la presenza di quell’occhio ci permette di decifrare, ricostruire la geografia altrimenti incerta delle forme, degli spazi, dei corpi”8. Attraverso la sua continua ma mutevole forma, l’animale diventa una sorta di grande madre che comprende la natura delle cose; ma Vacche è anche il limite estremo del nero che sembra ingoiare le immagini e le inquadrature, pur non diventando mai simbolo di morte, di perdita, ma trasformandosi in ventre della terra dove costantemente il mondo diurno e della vita viene rigenerato.
“Vertiginosi contrasti di luce, sofisticate sfumature, tagli compositivi netti e imprevedibili e primi piani portati al limite estremo, rendono il soggetto quasi impercettibile e allo stesso tempo pulsante, quasi ‘ammorbante’ di vita per il crudo realismo dovuto all’estrema vicinanza con l’immagine. Le striature, le grinze, le increspature della pelle, le sfuggenti ellissi degli occhi dei bovini diventano paesaggi indefinibili, frastagliati, lunari, creando l’illusione di una fotografia aerea sul mondo animale e sul nostro rapporto di dominio e dipendenza con esso, dal ciclo alimentare al mito”9.
Quei cambiamenti macroscopici che hanno segnato, socialmente e culturalmente, la sempre maggiore distanza tra l’uomo e l’animale, vengono evidenziati dall’istallazione: le immagini di Vacche sono poggiate a terra all’interno di scatole rettangolari che fungono da sarcofagi allineati quasi come in una cripta, un cimitero, un monumento ai caduti. Dentro la sala, il visitatore si trova così immerso in una sorta di necropoli e le opere diventano lapidi commemorative, icone di un’altra vita, quella animale, che resiste alla morte e al disfacimento dei corpi per quel gesto di cura rammemorante che l’artista impone allo spettatore.
Nell’istallazione, il nostro sguardo non è più frontale, siamo costretti a guardare quest’animale dall’alto, per sottolineare appunto l’incolmabile distananza, la follia generalizzata che ha fatto impazzire anche le mucche in un processo degenerativo verso gli animali e quindi verso la natura.
Qui la vacca torna d essere animale sacro proprio quando il suo corpo, da secoli sezionato, sfruttato, mangiato, si ricompone nella carnalità di un paesaggio oscuro e dolente, in cerimoniosa intimità con l’umano, affidato alla protezione di uno sguardo compassionevole, accudente e affascinato dalla scintilla di vita comune che anima quella pupilla, quella carne, quelle ossa.
Il cimitero delle vacche di Biasiucci è il luogo della pietà, in cui lo sguardo umano si distoglie dalle apparenze antropocentriche, dai suoi bisogni inconsulti e voraci, per volgersi all’indietro, verso l’oscura e immutabile profondità da cui tutto si genera e in cui tutto torna.
E ora Res, il quarto tomo di questo percorso visionario, al limite del visibile, che spazia tra inizio e fine, tra origine e catastrofe.
Dai corpi nudi, dalle trame della pelle e dalle scaglie del pane, ai vulcani e agli immensi panorami del corpo delle vacche, ci muoviamo ora tra le teche dei musei scientifici di animali impagliati, inciampiamo nei reperti di Pompei, ci appaiono ingranaggi, ferri, acciai, sguardi immobili e calchi, all’apparenza impossibili, di figure antropomorfe: organico e industriale emergono dalla penombra come le metamorfosi di un mondo in continua e pulsante trasformazione, dove passato, presente e futuro sono rimescolati senza soluzione di continuità. L’obiettivo riscrive la natura delle cose e gli elementi primari si mescolano con la memoria delle origini. Intrecci, rimandi, intersezioni di materia, ci offrono la meraviglia di uno sguardo nuovo di fronte al creato.
La ricerca completata nel 2000 racchiude, come in Corpus, più soggetti; e a ciascuno Biasiucci ha dedicato un tempo, adottando una metodologia per lui fondamentale.
La guerra in Kosovo diventa la fonte ispiratrice della prima parte del lavoro: l’Italsider di Bagnoli, area siderurgica dismessa, rappresenta lo smantellamento del mondo, ne raccoglie i resti opachi, i relitti di civiltà abbandonate.
Gli altri soggetti, che mano a mano hanno ampliato il lavoro, ne rafforzano la drammaticità della solitudine, dell’abbandono, della fine. Il gelo e l’assoluto. Ogni singolo scatto incarna una metafora e tutti assieme costruiscono il romanzo fantastico di un mondo sospeso.
“Dalla campagna campana alla periferia napoletana, dalle stalle ai vulcani, Biasiucci sviluppa un percorso lento di ritmo ondoso, che lo conduce a perlustrare i confini disabitati e inabitabili del mondo. Come l’archeologo che scava per portare alla luce i resti di antiche e mitiche civiltà, il fotografo ricerca le profondità inaccessibili del nero, perché anche solo una lama di luce radente possa scolpire il senso misterioso e imperituro di una forma perduta. Il nero e la luce sono le precategorie che formano il punto di vista del fotografo: e come nella caverna platonica appaiono solo ombre e sagome notturne, così nell’obiettivo di Biasiucci le cose sono magmatiche e fluttuanti. Né sociologia, né metafisica del quotidiano, le sue immagini sono piuttosto uno strenuo e interminabile tentativo di riordinare il mondo secondo una cosmogonia malinconica. Fuori, solo apparenze ingannevoli, laccate, folgorate dalla luce di una ragione accecante e proterva. Dentro, nella caverna buia, nella bocca spaventosa del vulcano, nella enorme e calda vagina della vacca, il vortice lento e incessante della produzione e del mutamento della materia, con i suoi volumi e le sue forme cangianti. La fotografia di Biasiucci questo racconta: il venire alla luce di ciò che sempre ritorna nell’ombra”10.
1 Goffredo Fofi, Corpus, Udine, Art, 1995.
2 Roberta Valtorta, Corpus, Udine, Art, 1995.
3 Christian Caujolle, Magma, Milano, F. Motta, 1998.
4 Mario Codognato in “Il Sole24ore”, 30 luglio 2000.
5 Giuseppe Luongo, Magma, Milano, F. Motta, 1998.
6 Antonio Biasiucci, Magma , Milano, F. Motta, 1998.
7 Mahatma Ghandi cit. in Goffredo Fofi, Introduzione a Vacche, Roma, Contrasto, 2000.
8 Ferdinando Scianna, “Il Sole24ore”, 30 aprile 1995.
9 Mario Codognato in “Il Sole24ore”, 30 luglio, 2000.
10 Eduardo Cicelyn, testo di presentazione della mostra “Vacche” a Castel dell’Ovo, Napoli, 2001.