Non so quando nel Campo di Souda è apparso Rouaf. Io e il mio assistente Luca non ricordiamo il momento in cui lo abbiamo incontrato.
Prima di partire per Chios era mia intenzione realizzare un grande polittico di mani e piedi dei rifugiati. Ero rimasto colpito dalle riprese che vedevo in televisione dei migranti che mostravano le loro mani e i loro piedi, affinché i medici potessero capire se vi erano tracce di scabbia. Mi sembrava questo il modo più intimo, profondo, per presentarsi all'altro. Rouaf, rifugiato curdo, ha condiviso subito il nostro progetto e ci ha accompagnati nelle tende dove abbiamo fotografato volti, mani e piedi di rifugiati provenienti da vari paesi. Rouaf è così diventato il mio secondo assistente; anche lui, insieme a Luca, mi aiutava ad illuminare con delle piccole torce ciò che fotografavo. Tra me e Rouaf, nonostante i problemi di lingua e le provenienze culturali così diverse, si è sviluppata una bella empatia, un forte legame, un'amicizia. Eravamo vicini nella sostanza delle cose.
Purtroppo, dopo pochi giorni non ho più potuto continuare il mio lavoro in quel campo. Molti pensavano che le mie foto delle mani fossero delle foto segnaletiche,e perciò le persone del campo avevano cominciato a guardarmi con sospetto. Tra l'altro Rouaf non aveva altri amici da presentarmi, per cui ho dovuto sospendere momentaneamente le riprese. Avevamo pensato di recarci in un nuovo campo dove Rouaf era stato molto tempo, il Campo di Vial, gestito da Frontex. Nonostante il mio accredito, purtroppo, non mi hanno assolutamente fatto entrare. Mi sono trovato in una situazione di grande sconforto. A quel punto Rouaf mi ha detto “Il lavoro che stai facendo a Chios è molto importante, bisogna continuarlo, se tu non puoi entrare nel campo a fotografare ci andrò io. Tu mi insegnerai a fotografare così come tu fotografi, con le tue luci, con i tuoi tagli, i tuoi contenuti. Mi farai vedere e mi parlerai del tuo modo di intendere la fotografia”. Confesso che la proposta mi aveva profondamente confuso, sul momento sono limitato a rispondergli che le foto dovevo assolutamente farle io; per giunta Rouaf non aveva mai realizzato fotografie nella sua vita. Continuai a pensare alla sua proposta per tutta la notte.
Mi ritornava in mente la sua frase “il lavoro che stai facendo è molto più importante di noi due, bisogna continuarlo” e nello stesso tempo pensavo che se Rouaf avesse fatto anche solo una foto buona da inserire nel mio polittico, che lui aveva già parzialmente visto, quella sua presenza cosi forte nella mia opera avrebbe rappresentato la vera integrazione culturale tra due persone, tra due stranieri. L'indomani ho chiamato Rouaf e per tre giorni nella stanza del mio albergo gli ho insegnato a fare le mie fotografie, in manuale, poiché impossibile farle in automatico con quelle luci. Luca illuminava, Rouaf fotografava (in digitale per avere subito la possibilità di verificare), io ero il migrante che mostrava le mani, i piedi e il proprio volto con gli occhi chiusi. Il quarto giorno avremmo dovuto cominciare ma Rouaf non si sentiva ancora pronto e voleva che continuassi a parlargli dei contenuti delle mie ricerche: un vero e proprio seminario dedicato. Rouaf era attento e, con grande sensibilità e intelligenza continuamente mi poneva domande. Il giorno dopo finalmente siamo partiti per Vial. Rouaf poteva entrare perché possedeva un braccialetto celeste che gli garantiva l'accesso. Ci ha accompagnati, lungo un percorso senza traccia, su una montagnola non distante dal campo dove comunque la polizia non poteva vederci. Ci ha chiesto di aspettarlo lì, di non muoverci mai, di non accendere le luci del cellulare: lui sarebbe tornato nel giro di poche ore. Erano le tre del pomeriggio, io e Luca eravamo lì seduti ad aspettare. Passate due, tre, cinque ore, Rouaf non tornava e non ci invia messaggi. Guardavo la faccia perplessa di Luca che era fermo, immobile e preoccupato. Cominciavo a preoccuparmi anche io, sentivo continuamente un via vai di sirene e immaginavo Rouaf sorpreso dalla polizia con un apparecchio professionale a fare foto nel campo. Pensavo di aver valutato male i rischi che questa operazione avrebbe potuto comportare e come tutto ciò poteva compromettere la possibilità di Rouaf di potersi spostare da Chios e proseguire verso il nord Europa.
Finalmente verso mezzanotte arriva un messaggio. Siamo scesi dalla nostra postazione con difficoltà; era buio, e non ricordavamo il percorso. Abbiamo finalmente incontrato Rouaf sulla strada sano e salvo.
Abbiamo cenato insieme e mi ha chiesto la cortesia di guardare le foto in albergo, senza di lui. Non ne aveva necessità. Aveva svolto il suo compito e ora toccava a me. Ho trascorso quella notte a osservare le immagini, emozionatissimo. Erano bellissime, avevano le mie luci, i miei tagli ma erano fatte da lui: rifugiato che fotografava altri rifugiati. Lo si avvertiva. Alcune immagini avevano dei problemi di messa fuoco o di micromosso ma nonostante questo, dentro il mio polittico, riuscivo a inserire alcune di esse: intense fotografie fatte dal mio amico Rouaf.
Dopo questo episodio, la mia permanenza a Chios è terminata nel migliore dei modi: abbiamo deciso di donare le foto dei ritratti realizzati nei giorni precedenti nel Campo di Souda, dove avevamo percepito di non essere più graditi. Questo gesto mi ha permesso di riavvicinarmi a loro e di continuare al meglio il mio lavoro.
Antonio Biasiucci